Tra un romanzo e l’altro ci vuole un cuscinetto – qualcosa ti leggero, qualcosa che ti dia la soddisfazione di poter vedere la fine ben prima di sentirti gli occhi chiudersi per la stanchezza. Per questo ogni tanto – raramente, lo ammetto – mi rifugio nel mondo dei racconti, con la spensieratezza di una conoscenza occasionale. E nell’universo dei racconti, credo che il mio porto sicuro sia Tre Racconti.
Tre Racconti è un progetto editoriale digitale, una piccola coccola trimestrale alle nostre menti affamate di letture. È un piccolo regalo, perché tu te ne dimentichi completamente per il resto dell’anno – ma quando ti arriva la mail con il link al nuovo numero lo scarichi al volo, e poi lo tieni a decanatare nelle cartelle del tuo computer fino al momento perfetto. Succede lo stesso anche con i libri lasciati accumulare sul comodino, questo è vero – ma la soddisfazione di leggere tutto in una mezz’ora, i libri non riescono a darcela.
Tre Racconti nasce da una redazione variegata – tra cui troviamo Maria di Biase, che gestisce anche Scratchbook e il gruppo di lettura Scratchreader. È una delle menti che stimo di più nel mondo del “book-social”, perché è una mente che produce testi splendidi e che si fa spazio nel mondo poco per volta, a piccoli grandi passi, senza arroganza ma con tanta passione. Chapeau!
Ma torniamo a noi: Tre Racconti. Ve ne parlo oggi perché nell’ultimo numero – il numero IV, che potete trovare cliccado qui – c’è un racconto in linea con Escherichia libri, con questa voglia di parlare di medicina e di salute attraverso le nostre letture: Le radici che restano.
Non farò spoiler – anche perché impieghereste meno tempo a leggere il racconto che a leggerne un mio riassunto – ma vi dirò solo questo: ne Le radici che restano troviamo una malattia particolare e un classico terrore di avere una diagnosi. Troviamo la paura dell’essere umano di fronte al fatto che c’è qualcosa che non va e troviamo la medicina, che cerca di dare risposte. Troviamo anche l’incapacità di accettarle, queste risposte, e poi troviamo il tentativo di farsi ascoltare, di attirare l’attenzione su di sé.
Tutto questo concentrato in una ventina di paginette? Oh, sì!
La penna dietro questo racconto è Francesco Bolognesi, diplomato alla Scuola Holden e più giovane di me – tanto giovane che si mette in fila assieme a Felice Florio per acuire la mia ammirazione verso questa voglia di mettersi in gioco, di buttarsi nel complesso mondo della scrittura. Chapeau, l’ho già detto?
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